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Samuele Sbraci

Si può morire di sonno?


Uomo che sbadiglia
Scopriamo l'Insonnia Fatale Familiare

Per insonnia si intende una persistente difficoltà nell’inizio o nel mantenimento del sonno, che comporta durante la giornata una sensazione di stanchezza e malessere, accompagnata da difficoltà a concentrarsi, mal di testa e aumentata irritabilità.


Esistono 3 tipi di insonnia: quella iniziale, in cui si fa fatica ad addormentarsi, quella centrale (o di mantenimento) in cui il sonno notturno viene interrotto più volte da periodi di veglia, e quella terminale, in cui il soggetto dorme normalmente ma si sveglia nelle prime ore del mattino e non riesce più a prendere sonno.


L'insonnia risulta essere uno dei disturbi più comuni nella popolazione occidentale: in Italia affligge il 15-20% della popolazione, pari a circa 12 milioni. Ci sono poi categorie di persone in cui è più frequente, come gli anziani, il cui sonno è spesso più leggero e frammentato, che ne soffrono nel 40% dei casi.


Esiste però un particolare tipo di insonnia, che, come suggerisce il nome, porta addirittura alla morte.

L’Insonnia Fatale Familiare (IFF) è una malattia genetica rarissima, e tutto sommato recente: il primo caso è stato descritto in 3 fratelli di una famiglia di Treviso nel 1973, e da allora nel mondo è stata diagnosticata a soli 200 pazienti, facenti parte di 27 famiglie (2 in Italia). Si tratta di una malattia prionica, lo stesso gruppo di malattie che a metà degli anni ‘90 ha allarmato il mondo con l’epidemia della mucca pazza.


Nell’IFF, intorno ai 40 anni si presentano i primi sintomi, inizialmente lievi come difficoltà ad addormentarsi o a restare addormentati, oltre a sintomi muscolari come contrazioni, spasmi e rigidità muscolare.

Col passare del tempo i pazienti vanno incontro ad un’insonnia totale, non riescono più ad addormentarsi in alcun modo, fino a quando le funzioni mentali si deteriorano, sempre di più, portando alla morte in poco tempo: la durata della malattia dal momento in cui si manifestano i primi sintomi varia dai 7 ai 25 mesi.


Ad oggi, nel 2021, purtroppo non abbiamo ancora una cura, per cui l’unica cosa che possiamo fare è cercare di trattare i sintomi di accompagnamento della malattia.



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