Narrami o Musa, dell’ennesima sconfitta.
Tempo fa mi trovavo in un bar di Edimburgo con un amico e si discuteva allegramente di sport, spaziando dal calcio all’atletica, dal rugby al basket. Essendo lui scozzese la conversazione era nata da un commento relativo alla partita della sera precedente Scozia vs Ucraina, valevole per la qualificazione ai prossimi mondiali in Qatar. Con pura amarezza nella voce il mio collega si lasciava andare ad un eloquente "sarebbe bello tifare una squadra che per una volta vincesse qualcosa”“. La Scozia aveva appena perso la partita 3-1, vedendo i propri sogni svanire in 90 minuti. Gli ricordavo che mi aveva ripetuto la stessa identica frase la scorsa estate, quando la nostra nazionale raccoglieva un improbabile successo agli Europei, mentre la Scozia alla sua prima apparizione nella competizione dal 1996 veniva eliminata nella fase a gironi, non senza rimpianti. Al che, dopo un momento di riflessione, mi viene data la risposta perfetta “forse è meglio tifare una squadra perdente, perché le poche volte che si vince qualcosa le emozioni sono più forti”. Lui, tifoso degli Hibernian lo sa bene. Nel mio articolo Storia di due citta riportavo la sua testimonianza della vittoria in Scottish Cup del 2016. Questo suo commento ha aperto il mio vaso di pandora. Lo sport è diviso storicamente tra vincenti e perdenti. Perché siamo così attratti da quelli che non vincono mai? Alcuni di noi lo sostengono apertamente, come ad esempio Federico Buffa noto tifoso della franchigia povera di Los Angeles, i Clippers. La maggior parte di noi invece mente, dichiarando di essere ispirati solo dai vincenti, dalle leggende, salvo flirtare in gran segreto con gli sconfitti.
Quando ho lasciato l’Italia non potevo che scegliere un Paese per certi versi “perdente”. La Scozia non è popolosa (solo 6 milioni di abitanti) e delle nazioni che compongono il Regno Unito è quello più fredda e più a nord. Uno dei record che detiene è quello di Paese europeo con il più alto tasso di morti per uso di droghe, non propriamente qualcosa di cui andare fieri. Vi ricordate Trainspotting? Ecco, non è che ci sia troppo impegnati per scrollarsi quello stereotipo di dosso. A livello sportivo poi le cose non si mettono molto meglio. Se da un lato è vero che il movimento calcistico scozzese si è sviluppato molto negli ultimi anni ed il rugby sia tradizionalmente un punto di forza, i risultati sul campo scarseggiano.
La nazionale di calcio ha raccolto, come si discuteva in precedenza, solo una qualificazione agli Europei dello scorso anno, in cui non è riuscita ad andare oltre la fase a gironi. E arrivata molto vicina a giocarsi la qualificazione ai mondiali, ma scivolando proprio sul più bello contro un agguerrita Ucraina. Il rugby sembra essere costantemente sul punto di fare il grande salto, ma finisce spesso per raccogliere meno di quanto sperato. Ad esempio, in tutti gli anni in cui ho vissuto qui, il Six Nations si è aperto con buone aspettative (non grandiose, quasi nessuno realmente crede di poterlo vincere) salvo poi ridursi ad accettare la mediocrità. Più forti dei soliti perdenti (noi), ma più deboli degli altri. In genere sono due le partite che si attendono con trepidazione. Contro l’Italia perché solitamente significa vittoria garantita ed il big match contro The Auld Enemy, l’Inghilterra degli gli storici rivali inglesi, una rivalità che va ben oltre lo sport.
Nonostante ciò, adoro seguire lo sport in Scozia. Essendo un Paese piccolo si può assaporare quel sapore provinciale, agrodolce, di una realtà lontana dal grande mercato e di conseguenza più naturale, vicina alle tradizioni. E un contesto eccitante poiché si percepisce da un lato l’attaccamento alle tradizioni e dall’altro il febbrile desiderio di evolversi e crescere.
Il movimento sportivo scozzese è grezzo in molti aspetti, lo si può facilmente notare nelle infrastrutture di molti club di piccole citta, nel tipo di gioco espresso, persino nel tipo di tifoseria. In molti altri è all’avanguardia, dalle infrastrutture ai settori giovanili, passando per le aree di ricerca e sviluppo. Le prove ci sono. I Rangers di Glasgow hanno raggiunto la finale di Europa League quest’anno. Questo, unitamente alla recente apparizione ad Euro 2020 e la quasi qualificazione ai mondiali in Qatar dimostra che il movimento calcistico scozzese e in fase di sviluppo.
Ritornando al punto di partenza e alla questione posta dal mio collega, mi sento di dare una risposta. Io adoro tifare per i perdenti. Mi piace soffrire con loro, sperare e poi rimanere deluso, gioire poche volte, ma farlo per davvero. Si tratta forse di masochismo che mi autoinfliggo, ma in fondo va bene così. Perché avere vita facile e stare sempre dalla parte dei più forti? Che soddisfazione c’è a vincere sempre? Io preferisco vedere la fatica, il sudore, le emozioni di chi sa di partire svantaggiato ma poi gode immensamente quando batte Golia, tipo quando la Scozia ha sconfitto gli inglesi nel Six Nations lo scorso febbraio, un match duro, sporco, vinto di tre punti.
Mentre mi arrovellavo per ricercare materiale ed ispirazione per questo articolo, come una manna dal cielo mi è caduto tra le mani questo stupendo pezzo de L’Ultimo Uomo su Milorad Cavic. Uno dei nuotatori più importanti di inizio anni duemila, Milo è passato alla storia per la rivalità con il dio del nuoto Michael Phelps. Purtroppo per lui l’highlight della carriera rimarrà la finale dei 100m farfalla di Pechino 2008 persa per un centesimo di secondo (!) contro lo squalo di Baltimore, il quale agguantò la settima medaglia d’oro in altrettante gare (raggiungendo lo storico record fissato da Mark Spitz nel 1972) per poi scrivere la storia qualche giorno dopo.
Cavic è il soggetto perfetto per supportare la mia argomentazione. Ad una mentalità rigida, fissata sui risultati e l’ossessione di essere il migliore sempre (e quindi di vincere) ha preferito un approccio più artistico, contemplando la possibilità di sconfitta e accettandola come parte del gioco. «Se trasformi tutto in qualcosa che è specificamente scientifico ed analitico penso che si perda la possibilità che accada qualcosa di magico e bello», dice Cavic in un intervista con Brett Hawke, ex nuotatore australiano visto a Sydney 2000 ed Atene 2004.
La mia opinione è che siamo inconsciamente attratti da chi fatica, da chi soffre, cade e poi si rialza semplicemente perché è parte del nostro essere umani. Io adoro questo aspetto dello sport ed è il filtro attraverso cui lo osservo. Non sono ovviamente immune ai risultati, gioisco quando chi tifo vince e mi rammarico quando perde, ma ciò che ricerco costantemente sono le emozioni. Ho trovato una bellissima citazione di Giovanni Allevi, che recentemente ha confessato di essere in lotta contro un mieloma.
“Il nocciolo dell’umanità è l’essere imperfetti. E allora basta con la perfezione! Noi siamo esseri imperfetti e per questo straordinariamente belli.”
Commettere errori, imparare, migliorare, raccogliere sconfitte e poi lottare per le vittorie. Lo sport spesso è inteso come metafora della vita. Ode ai perdenti dunque, a coloro che sanno soffrire molto e gioire poco.
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