Autori: #MartaAllegri #AessandroCibecchini
“La mafia è una montagna di merda”. Così la definisce Peppino Impastato prima del suo assassinio, per mano di cosa nostra, nel 1978.
Oggi come allora, Via d’Amelio ricorda la strage avvenuta il 19 Luglio del 1992 alle 16.58 di quel pomeriggio. Paolo Borsellino e cinque agenti della sua scorta furono uccisi dall’esplosione di una Fiat 126 posteggiata in prossimità del civico 21; ex luogo di residenza della madre Maria Pia Lepanto e di Rita Borsellino. Era una domenica estiva, premeditata da Cosa Nostra, all’insegna di depistare le continue ricerche portate avanti dal pool antimafia di magistrati di cui faceva parte lo stesso Paolo Borsellino.
Tutti conosciamo e ricordiamo oggi il Giudice che insieme a Giovanni Falcone ed al pool antimafia, riuscì a far emettere ben 346 condanne per 475 indagati nel c.d. maxi-processo di Palermo del 1986.
Ciò che conosciamo relativamente o non conosciamo è la mente, la struttura e la storia dietro il fenomeno di cosa nostra: com’è nata, perché, le stragi ed i giochi di potere degli anni ‘70/’80.
1) Tommaso Buscetta: lui ne sa qualcosa.
“L’ignoranza significa che a parte la pratica dell’omertà – che consiste nel non far trapelare nulla al di fuori dell’associazione – non esiste più niente. Per questo mi sentivo a disagio dentro cosa nostra. Alla fine di ogni discorso si arrivava regolarmente allo stesso punto: siamo uomini d’onore, apparteniamo a cosa nostra. Siamo omertosi e di qui non si passa punto e basta.”
Con questa frase il più grande pentito (anche se lui non amava essere chiamato così) di mafia si rivolge al giudice Falcone nella testimonianza riportata nel libro “Addio cosa nostra” di Pino Arlacchi, sociologo, politico, amico di Falcone e Borsellino, grande conoscitore dei fenomeni mafiosi nel mondo.
Buscetta non ha mai rinnegato ciò che ha fatto in vita. Si considerava un “uomo d’onore”: ma cos’è un uomo d’onore? Un uomo (e non donna), che pur conducendo la vita di criminale, aveva un suo codice, un uomo rispettato all’interno del suo paese. Rispetto e onore. Grandi parole che stonano con i criminali, con i mafiosi di oggi.
La storia della mafia, se approfondita, non è solo stragi e traffico internazionale di stupefacenti; è altro.
2) Storia e origini
La Mafia dunque, come sappiamo, non è un organizzazione nata dal niente e non è solo il sintomo delle manifestazioni criminali degli ultimi 30 anni. Le sue origini sono ben più recondite nella nostra cultura e nella nostra società. Essa iniziò a manifestarsi successivamente dopo l’unificazione italiana avvenuta nel 1861; il contesto del baronato in Sicilia aveva ormai indotto la classe contadina ad appoggiare quel clima illecito basato sull’oppressione di ogni individuo all’interno del sistema agrario esistente. L’operazione italiana, sostenuta da una buona parte dalla popolazione meridionale, consisteva come primo obiettivo quella di abolire il monopolio gestito dai baroni sulle stesse terre possedute, e garantire, in un secondo momento, una maggiore stabilità sociale nei confronti di tutte le categorie oppresse, specialmente quelle operaie e contadine.
Una volta formato il governo, le decisioni che furono vagliate dalle prime forze politiche consistevano nell’investire i propri finanziamenti pubblici verso un’immediata industrializzazione delle infrastrutture presenti in buona parte delle regioni centro-settentrionali della penisola. Questo permise di creare un disegno territoriale non omogeno e programmato al fine di far prevalere tutte le zone considerate economicamente fiorenti e redditizie. Non avendo avuto quindi, una chiara definizione di quello che fosse la situazione socioeconomica del Sud Italia - di cui fu tassata allo stesso modo quanto le altre regioni - la gestione agraria delle terre meridionali passarono perciò, nelle mani di tutti quei possedenti che sfruttarono i loro capitale per monopolizzare il mercato agrario a propri scopi personali. Dunque, il fenomeno mafioso della seconda metà del XIX secolo, trovò quel terreno fertile dal conseguente abbandono dall’amministrazione centrale dello stato nei confronti del Mezzogiorno, in quanto fu plasmato un nuovo modello simile al modello feudale del baronato, servito per istituire una rete gestionale a favore dei cosidetti “gabellotti”: cioè grandi latifondisti e affittuari di terreni agricoli. Questi, acquistarono buona parte dei latifondi per dividerli a sua volta, in numerosissimi lotti agrari concessi successivamente ai contadini. Il compenso ricavato fu utilizzato per organizzare un monopolio basato sui frequenti soprusi e violenze a coloro che avrebbero, anche solo per giustizia, ostacolato gli interessi dei gabellotti, e non di meno, furono create le prime forze armate chiamate campieri (cioè guardie di sorveglianza del latifondo).
Il passaggio da offrire sicurezza economica nei confronti delle classi sociali povere, ad arrivare a toccare i vertici delle classi dirigenti locali fu breve. Già nei primi 20 anni dall’Unità d’Italia, i vari partiti usufruirono del potere mafioso ad appannaggio dell’amministrazioni territoriali siciliane, diventando un effettivo strumento di controllo sociale per colmare tutte le furie generate dal brigantaggio. Da un’azione meditata a debellare queste forme criminali esistenti, lo Stato passò, quindi, ad avvalersi degli stessi favoritismi offerti dalla mafia: uno sfruttamento che, tuttavia, servì all’organizzazione criminale per arrivare a toccare i vertici del Quirinale. Un potere che si consolidò soprattutto durante il periodo del “boom economico” degli anni 50 del 1900. Durante il periodo del fascismo, la mafia fu duramente combattuta dalla nomina del prefetto Cesare Mori a Palermo, che condusse un’importante lotta contro l’organizzazione mafiosa conseguendo con successo ottimi risultati.
Negli anni successivi alla Seconda guerra mondiale, nell’immaginario comune della mentalità italiana, la mafia sembrava quasi fosse un bellissimo ricordo appartenente al periodo della fase agraria dei primi anni dell’unificazione, ma tuttavia non fu così. Essa assunse un nuovo aspetto e un nuovo modo per controllare e gestire il suo potere. L’avanzata dell’industrializzazione nei territorio meridionali, il contrabbando di tabacco e l’apertura a mercati internazionali, principalmente americani, favorirono la conversione da una mafia strettamente agraria ad una “mafia multi-settoriale”.
Il controllo ottenuto si ramificò in tutti i suoi aspetti, toccando specialmente il settore del mercato edilizio, che stava avanzando sempre di più nei territori meridionali. La causa fu dovuta sia dal repentino abbandono della popolazione dalle campagne per trasferirsi nelle città (ancora nella loro fase di sviluppo industriale), sia dall’avanzata immigrazione della popolazione meridionale verso le regioni settentrionali.
Come il baricentro economico si spostò, così anche gli interessi criminali avanzarono in maniera costante; i vari clan, tra cui i famosi Corleonesi, riuscirono a gestire un quantitativo ingente del mercato di droghe dagli anni 70/80/90 del XX secolo. Con le prime guerre dichiarate nei confronti dei cartelli di droga americani e la chiusura delle raffinerie marsigliesi, grandi produttori di eroina, la Sicilia conquistò posizione diventando una delle maggiori raffinerie d’Europa. Una gestione che toccò almeno l’80% della distribuzione di eroina nei territori statunitensi e che fu coadiuvata da boss emigrati negli anni precedenti alle guerre.
Dunque si trattavano di anni in cui da una parte, attraverso la coordinazione del capo-clan Totò Rina, primeggiava una forte esibizione dello stato mafioso nella ridefinizione di quelli che fossero i rapporti con la politica italiana, e dall’altra l’idea di detenere il monopolio sui mercati internazionali favoriva una maggiore violenza a tutti coloro che si fossero messi contro alle loro gerarchie di potere.
Una violenza che, tuttavia, ha mietuto le sue vittime intente ad ostacolare ogni regime criminoso e criminale volto toccare qualsiasi ambiente delle istituzioni Italiane. Da Piersanti Matterella al generale Carlo Albero della Chiesa fino ad arrivare a Giovanni Falcone e Paolo Borsellino, che, insieme ad altri magistrati costituivano il pool dei giudici-antimafia volti a perseguire le indagini a seguito dei precedenti assassini nei confronti dei primi magistrati dediti a combattere cosa nostra.
2.1) Le gerarchie mafiose
Dagli anni ’50 del ‘900 le famiglie mafiose siciliane, su esempio delle famiglie di New York, misero in piedi la c.d. Commissione. Che cos’era? Quale era il suo scopo?
La Commissione era l’unione dei rappresentanti delle famiglie più importanti della Sicilia: un accordo tra “uomini d’onore” che si impegnavano a rispettarsi fra loro, a porre delle regole valevoli per tutti, e soprattutto, a non uccidersi a vicenda. Essa era il primo esempio di come la mafia non fosse solo “un branco di briganti mezzi criminali”, ma qualcosa di più. La mafia con gli anni, attraverso la Commissione, il commercio internazionale di stupefacenti, acquisì un potere tale da controllare non solo la Sicilia, ma riuscì a stringere rapporti con personaggi politici di rilevante spessore (uno su tutti Giulio Andreotti).
3) Le guerre di mafia: l’avvento dei sanguinari
Anni ’60: in questo periodo in Sicilia, e in modo particolare a Palermo, alcune delle famiglie mafiose facenti parte della Commissione entrarono in conflitto tra loro. Secondo le fonti delle autorità il motivo del conflitto era una truffa su una partita di eroina; secondo Tommaso Buscetta, i motivi erano insiti alla fame di potere di alcuni capifamiglia all’interno della Commissione.
Fatto sta che agli inizi degli anni ’60 cominciò quella che gli storici hanno definito come la prima guerra di mafia. I protagonisti furono: Antonino Matranga, Mariano Troia, Michele Cavataio, i fratelli La Barbera e le famiglie mafiose della Noce e di Porta Nuova (di cui faceva parte Buscetta).
Una guerra che durò anni, fatta di omicidi, autobombe e vendette che portarono i loro strascichi fino a metà anni ’70.
Molti dei nomi citati prima e molti degli appartenenti alle loro famiglie mafiose persero la vita e solo la ricostituzione di una nuova Commissione portò ad un’apparente ed effimera pace.
Anni ’80: la seconda guerra di mafia ha inizio con un “virus”. Attenzione, non una malattia che porta tosse o raffreddore, bensì un grave tumore alto poco più di 1,50 m di nome Salvatore (Totò) Riina.
L’ingresso di Riina, ed in generale delle famiglie di Corleone, all’interno della Commissione, portò alla più sanguinaria guerra nel nostro paese degli ultimi 40 anni. La brama di potere, l’avidità crescente avevano portato a scontrarsi il gruppo di Bontate, Inzerillo, Badalamenti, Buscetta contro Riina, Provenzano e i corleonesi.
Tra la fine degli anni ’70 e gli anni ’80 tra le 400 e le 1000 persone persero la vita; e non solo mafiosi, anche i loro parenti, amici furono colpiti; giornalisti, civili, politici, magistrati, fecero la stessa fine.
La fazione di Bontate, Inzerillo, Badalamenti, Buscetta ne uscì perdente; tanto che quest’ultimo, dopo la morte di numerosi parenti (anche non affiliati a cosa nostra), decise, per salvare la vita dei suoi cari rimasti, di collaborare con la giustizia.
3) La confessione di Buscetta e il maxi-processo
Il tutto inizia con il giudice Falcone.
Recatosi in Brasile, dove Buscetta era latitante, riuscì a far estradare in Italia l’affiliato a cosa nostra. Solo grazie alle innumerevoli informazioni e testimonianze raccolte dal magistrato fu svelata la tela di intrecci e la struttura di ciò che la mafia era diventata. Se agli occhi dell’Italia, come detto sopra, i mafiosi erano solo “un branco di briganti mezzi criminali”, nella realtà Buscetta descrisse una vera e propria associazione, con una Commissione, con delle gerarchie, con delle “amicizie” importanti (mai rivelate però in quella occasione, ma solo successivamente), che nessuno mai ne era venuto a conoscenza.
Due furono i giudici istruttori che diedero inizio al maxi-processo: Giovanni Falcone e Paolo Borsellino. Trascorsero, per sicurezza personale, insieme alle famiglie molti giorni sull’isola dell’Asinara in Sardegna, luogo di un carcere di massima sicurezza. In questo tempo, raccolte e ultimate gran parte delle indagini, scrissero l’ordinanza (di 8000 pagine!) che rinviava a giudizio ben 475 indagati.
Il maxi-processo (10-02-1986), che si svolse nell’aula bunker costruita appositamente per l’occasione nel carcere dell’Ucciardone a Palermo terminò (nel primo grado) in un anno, con 346 condannati per un totale di 2265 anni di carcere e 19 ergastoli.
4) Conclusioni
Di quello che resta in quel pomeriggio d’estate del 19 Luglio sono le macerie di quella esplosione così premeditata quanto attesa. Quello che fu di Borsellino rimane ancora vivo nelle nostre menti e rimane, ad oggi, una questione mai conclusa; una questione che ha come oggetto la sparizione della sua agenda rossa. Un diario che negli ultimi mesi Borsellino annotava tutti i suoi appunti in merito alla morte di Giovanni Falcone ma che fu scomparso al momento della strage in via d’Amelio. Una documentazione che nei vari processi portati avanti a fronte dell’uccisione di Borsellino hanno originato dubbi e indagini nei confronti di una misteriosa sparizione come questa. Che forse al suo interno si trovavano informazioni delicate è ormai certo, ed è ormai certo come questa, riportato nella prefazione del Libro: “L’agenda Rossa di Paolo Borsellino” di Giuseppe Lo Bianco e Sandra Rizza, fosse stata la scatola nera di tutte le informazione misteriose sulla Prima Repubblica.
Stragi, violenze e condanne; dagli anni ‘70 agli anni ‘90 il clima generato da cosa nostra ha visto sul campo la battaglia di uomini che si sono sacrificati a costo di fare giustizia. Sarà nella scoperta di quell’agenda rossa a rivelare tutti i meccanismi della mafia del XX secolo? O rimarrà una compagine ancora del tutto sconosciuta a noi?
“Chi ha paura muore ogni giorno, chi non ha paura muore una volta sola.” Paolo Borsellino
“la mafia sarà vinta da un esercito di maestri elementari” Gesualdo Bufalino
“la mafia è un fenomeno umano e come tutti i fenomeni umani ha un principio, una sua evoluzione e avrà quindi anche una fine.” Giovanni Falcone
Bibliografia:
- “ L’agenda Rossa di Paolo Borsellino” di Giuseppe Lo Bianco e Sandra Rizza
- Dossier : “L’officina della legalità”, Dipartimento di Storia, Filosofia e Religione del Liceo Scientifico “Enrico Fermi” di Sulmona
- “Addio cosa nostra” di Pino Arlacchi
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