Autore: #MatteoAgostino
L’archiviazione del referendum costituzionale con l’abbastanza prevedibile affermazione del sì ha portato le forze politiche a dichiarare aperta la “stagione delle riforme”, una stagione per la verità più volte partita e difficilmente portata a compimento, o comunque ampiamente disattesa. Basti pensare alle commissioni bicamerali per le riforme che si sono succedute nel corso degli anni, partendo dalla commissione Bozzi, alla De Mita-Iotti, fino ad arrivare alla commissione D’Alema nel 1997 e al tentativo di riforma costituzionale del 2016.
Venendo ai nostri giorni, quali sono gli immediati accorgimenti di carattere istituzionale che dovranno essere assunti dopo il referendum? In primis bisognerà adeguare i regolamenti parlamentari in riferimento ai gruppi e al numero delle commissioni e dei componenti, cosa che a Palazzo Madama potrebbe avere delle conseguenze in tema di regolare funzionamento a causa dell’eccessivo numero delle commissioni in un Senato ridimensionato a 200 componenti.
In secondo luogo, il Consiglio dei Ministri dovrebbe approvare la mappa dei nuovi collegi previsti dalla legge elettorale, il c.d. Rosatellum-bis, già adoperata per le elezioni del 4 marzo 2018, che prevede un sistema misto per un terzo maggioritario con collegi uninominali e per due terzi proporzionale con listini bloccati, con una soglia di sbarramento fissata al 3% per i partiti non coalizzati. Già, “dovrebbe”, perché questo adeguamento avverrebbe a legge elettorale invariata.
Se invece dovesse proseguire in aula il cammino della legge elettorale, cd. Brescellum (sì, anche questa volta è stata confermata la prassi tutta italiana di ribattezzare le leggi elettorali in latino, ma capite bene che è pur sempre un nome più nobile rispetto al Porcellum), approvata in Commissione Affari costituzionali il 10 settembre, si andrebbe verso un sistema proporzionale e quote di sbarramento al 5%, con un diritto di tribuna per i partiti minori. C’è da dire che ancora non c’è un accordo nella maggioranza e che in commissione è stata votata solo da Movimento 5 Stelle e Partito democratico, con le opposizioni che hanno lasciato l’aula.
Per quanto il “no” al referendum non abbia ottenuto la maggioranza, tuttavia non si può prescindere dal tema della rappresentanza che con forza è stato posto dai sostenitori del no durante la campagna referendaria. “Se proprio deve esserci un Parlamento più debole, almeno si corra ai ripari andando a rafforzare l’elettorato” potrebbe essere il leitmotiv sostenuto in questi giorni, volto anche al reinserimento delle preferenze nella legge elettorale per l’elezione del Parlamento. Ovviamente il dibattito sulla legge elettorale non è chiuso e c’è anche chi non si rassegna ad un ritorno del proporzionale e propende per il Mattarellum, che a partire dal 1993 ha garantito governabilità e rappresentanza, permettendo di presentarsi agli elettori con un programma definito già prima delle elezioni e con coalizioni già formate. Come a dire, insomma, che “il futuro è già passato e non ce ne siamo nemmeno accorti.” Può sicuramente sembrare un dibattito surreale e lontano dalla realtà, e probabilmente in parte lo è, ma nella nostra storia democratica le leggi elettorali hanno sempre segnato il passaggio da un momento all'altro della vita della Repubblica: il passaggio ad un sistema maggioritario ha di fatto posto fine a quella che, in gergo giornalistico e per convenzione, viene chiamata “Prima Repubblica”.
A questo quadro già oggettivamente complicato bisogna aggiungere i disegni di legge per superare il bicameralismo paritario: qui il quadro è quanto mai variegato, perché si va dalla creazione di una sorta di “senato delle regioni e delle autonomie” che tenga maggiormente in considerazione il carattere territoriale, sino ad arrivare ad affidare il voto di fiducia (con l’introduzione della sfiducia costruttiva sul modello tedesco) e alcune tematiche di indirizzo politico al parlamento riunito in seduta comune. Alla Camera, tra l’altro, è stato già depositato il disegno di legge per ridurre il numero dei delegati regionali per l’elezione del Presidente della Repubblica che, con le modifiche intervenute a seguito del referendum, arriverebbero ad avere un peso superiore a quello attuale, alterando i normali equilibri.
I rischi sono molteplici. In primis il pericolo è che tutto si risolva in un nulla di fatto, come d'altronde la storia parlamentare degli ultimi decenni ha insegnato. Senza trascurare, come è stato autorevolmente osservato, che una riforma costituzionale (e di conseguenza anche una legge elettorale) non può non considerare il contrasto ideologico e l’estrema mobilità dell’elettorato italiano, con tre forze opposte che negli ultimi sei anni si sono avvicinate alla fatidica soglia del 40%. È evidente poi che l’altro rischio insito già nell'attuale legislatura è la delegittimazione del Parlamento: non pochi hanno osservato come dalla vittoria del sì escano una Camera e un Senato delegittimati ad eleggere il prossimo Presidente della Repubblica, invocando quindi lo scioglimento anticipato delle Camere e la fine della legislatura. Sono delle valutazioni politiche, sicuramente, che però ricalcano il copione di quanto già visto dopo la sentenza della Corte Costituzionale 1/2014, quando l’allora legge elettorale, il Porcellum, venne dichiarata incostituzionale in quanto irragionevole e sproporzionata sotto due punti di vista: anzitutto non si prevedeva una soglia minima di voti a partire dalla quale far scattare un premio di maggioranza e in secondo luogo venivano previsti listini bloccati eccessivamente lunghi.
Sarà quindi possibile, ora, portare avanti e completare il cantiere delle riforme oppure tutto si risolverà solo in “troppo rumore per nulla”?
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