L’espressione facciale è un potente canale comunicativo non verbale, in grado di veicolare stati emotivi. Ma come viene decodificata dal nostro cervello?
Dopo aver rilevato una certa configurazione facciale, il cervello le attribuisce un significato, permettendoci di riconoscerla come un’emozione specifica (paura, felicità ecc.). Questo secondo step, ovvero il riconoscimento dell’emozione, avviene mediante una simulazione dell’emozione osservata nell’altro. In altre parole, si attivano nell’osservatore le stesse aree cerebrali (sensoriali, motorie, limbiche) che sono coinvolte nell’emozione che viene osservata, come se l’osservatore stesse provando quell’emozione in prima persona.
Si attiverebbero dunque i programmi motori associati all’emozione osservata, con conseguente attivazione di gruppi muscolari specifici (attivazione minima, rilevabile tramite elettromiografia). Infatti è stato dimostrato che bloccando la mimica facciale si assiste a un decremento nell’accuratezza che è selettivo nel riconoscimento delle emozioni veicolate da espressioni facciali. La simulazione coinvolgerebbe anche l’attivazione di aree più direttamente coinvolte nell’elaborazione emotiva, tra cui l’insula anteriore e la corteccia cingolata anteriore. Questo meccanismo di simulazione nel suo insieme permetterebbe dunque una comprensione immediata ed automatica delle emozioni altrui, costituendo il primo nucleo di quell’abilità complessa che è l’empatia.
Una primitiva capacità di simulazione può considerarsi innata, come si evince dai comportamenti di imitazione messi in atto sin dalla nascita. Tuttavia è nella relazione diadica con il caregiver, nei primi mesi di vita, che tale capacità raggiunge la sua piena espressione. In questo contesto di “intersoggettività primaria”, infatti, il caregiver ha il fondamentale compito di rispecchiare, attraverso l’espressione facciale e vocale, l’esperienza interiore del bambino, permettendogli così di costruire la sua capacità di comprendere i propri stati mentali e quelli altrui.
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