Autore: #SimoneAncillotti
In data 13 maggio viene annunciato il cosiddetto “decreto rilancio” con cui il Governo aggiunge ai 20 del decreto cura Italia altri 55mld di euro di deficit per far fronte alla crisi del Covid-19. A differenza di altri proclami, poco è stato detto sui 3,35 miliardi stanziati per il settore aereo. Di questi fondi 3mld sono esclusivi di Alitalia mentre i restanti 350 milioni sono direzionati al comparto in generale.
Una delle principali difficoltà che ogni governo italiano deve sempre affrontare è quello relativo al reperimento di fondi: il deficit di bilancio statale non deve essere troppo ampio per non far aumentare un debito pubblico già troppo alto. Eppure, negli ultimi anni sono stati spesi per Alitalia circa 10mld di euro di soldi pubblici, se contiamo anche quelli che si aggiungeranno con il nuovo decreto arriviamo a più di 12mld. Con questa somma lo Stato italiano avrebbe potuto acquisire diverse altre compagnie aree tra le quali anche il gruppo Air France-KLM, che adesso, complice la crisi del trasporto aereo, ha una capitalizzazione di mercato di “soli” 1,7mld di euro.
Questa spesa è stata spesso giustificata dai politici come necessaria per
salvaguardare un asset strategico nazionale per il turismo italiano. Il problema è che questo asset sembra non essere più strategico da diversi anni. Come fa notare Andrea Giuricin, CEO di TRA Consulting, la quota passeggeri di Alitalia rappresenta il 9,8% del totale dei passeggeri da e per l’Italia contro il 22% della sola Ryanair (prima in classifica).
Come prevedibile, la compagnia irlandese non ha reagito bene alla sproporzionalità dei fondi divisi tra Alitalia e le altre compagnie, e coalizzandosi con altri vettori low cost che operano nella penisola (Blue Air, EasyJet, Norwegian, Volotea e Vueling) ha formato l’associazione Aicaf. Dei passeggeri da e per l’Italia, circa il 51% utilizza le compagnie facenti parte di questa associazione: più di 5 volte quelli di Alitalia.
L’obiettivo dell’associazione sarebbe quello di riportare la competitività all’interno del mercato aereo italiano. La competitività, infatti, è un fattore cardine del mercato aereo moderno e nel caso italiano troviamo una situazione particolare. Le compagnie aeree low cost sono state ripetutamente accusate di essere troppo aggressive sul mercato e di praticare dumping sociale. Ryanair, per esempio, ha costi del lavoro molto bassi, che gli permettono di essere il vettore più redditizio sul mercato italiano, ma anche di avere dipendenti spesso sottopagati. All’altro estremo abbiamo Alitalia, compagnia che distorce la
concorrenzialità del mercato con il trattamento di favore che riceve dallo stato nonostante non sia redditizia ormai da tempo. Per la nostra compagnia di bandiera, la situazione di crisi va avanti da 30 anni. È evidente come senza aiuti statali non sarebbe potuta rimanere sul mercato, e che gli stessi aiuti abbiano danneggiato indirettamente altre compagnie minori, anche italiane, come la neo-fallita Air Italy.
Vediamo meglio i passaggi che hanno portato a questa situazione, e quali potranno essere le sorti di Alitalia e del mercato aereo nel dopo-crisi con le novità del decreto rilancio.
Inizio della crisi di Alitalia
Fondata nel 1946, viene controllata interamente dallo stato attraverso l’IRI – l’Istituto per la Ricostruzione Industriale - per 50 anni fino alla prima parziale privatizzazione. Come d’uso nell’Italia degli anni ‘80, Alitalia viene usata come strumento elettorale, dato il grosso bacino di voti che da sempre ha gravitato intorno ad essa, mentre non viene sviluppato un piano industriale lungimirante. All’inizio degli anni ‘90 la compagnia di bandiera inizia a faticare più del normale e decide di tagliare le rotte a lungo raggio per concentrarsi sul meno redditizio corto raggio; la decisione si rivelerà sbagliata facendo perdere ad Alitalia parte dei ricavi. Nel frattempo, l’IRI, carico di debiti e bloccato dal divieto di aiuti di stato dell’Unione Europea, non può più aiutare la compagnia e Prodi, nel 1996, opta per la quotazione in borsa del 37% della stessa.
La crisi di Alitalia inizia in concomitanza con l’avvio del processo di liberalizzazione del trasporto aereo europeo. Tuttavia, è da escludere che Alitalia sia entrata in crisi direttamente per colpa della liberalizzazione in quanto gli effetti di questo processo si manifestarono concretamente solo a fine anni ‘90.
Liberalizzazione del mercato aereo e avvento delle low cost
Nel periodo ante-liberalizzazione, ogni paese europeo aveva una compagnia di bandiera controllata dallo stato, tratte aeree e tariffe venivano decise attraverso accordi bilaterali tra gli stati. In questo modo le compagnie di bandiera – cioè gli Stati - erano gli unici attori del mercato e la concorrenza era pressoché nulla.
Uno dei principi su cui si fonda l’Unione Europea, stabilito dal trattato sul funzionamento dell’unione (TFUE), è quello di prevenire restrizioni e distorsioni della concorrenza sul mercato. Come è facile accorgersi dall’esperienza quotidiana, la concorrenza ha il ruolo essenziale di spingere gli agenti economici a migliorarsi costantemente, offrendo servizi sempre più convenienti per non essere penalizzati dai clienti. Per queste ragioni l’Unione Europea nel 1987 iniziò a spingere per la liberalizzazione del mercato aereo, già
sperimentata negli Usa. Dopo la rimozione delle restrizioni concernenti le tariffe e l’apertura delle rotte europee a tutte le compagnie che fossero in possesso di una licenza comunitaria, il numero di vettori aerei incrementò. In particolare, si iniziò a vedere la nascita di molte compagnie low cost: dal 1996 al 2018 la presenza sul mercato europeo delle low cost passò dall’1,4% al 36,6%.
Nel caso italiano, questo avanzamento delle compagnie a basso costo ha giocato un ruolo fondamentale nella crescita del mercato rendendo il trasporto aereo più accessibile. Dei 184 milioni totali di passeggeri nel 2018 (+100% dal 2000), 94 milioni sono stati trasportati da vettori low cost. Numeri sorprendenti visto che prima della liberalizzazione non esisteva questo tipo di trasporto. Gli effetti si vedono anche sui passeggeri internazionali UE, addirittura triplicati dal 2000 (uno dei migliori risultati in Europa). Tutto questo, ovviamente, con notevoli benefici anche per l’industria turistica.
Alitalia perde sempre più quota
Purtroppo per la nostra compagnia di bandiera, le tratte a corto raggio, dove essa si era concentrata, hanno iniziato ad essere dominate dalle compagnie low cost e le scelte industriali hanno continuato ad essere poco strategiche e dettate dall’influenza politica. Con il salvataggio e la nuova gestione del 2008 si decise di tagliare anche le rotte infra-europee, concentrandosi su quelle nazionali.
Il salvataggio del 2008 fu frutto del governo Berlusconi III che pose il veto sull’offerta di rilevazione da 1mld della società fatta dal gruppo Air France-KLM, per poi affidare la compagnia a una cordata di imprenditori vicini all’allora premier Berlusconi. Alla fine del salvataggio questi imprenditori, che presero il nome di “capitani coraggiosi”, avevano speso per la compagnia solamente 300 milioni lasciando allo stato italiano circa 1 miliardo di debiti. Non solo, la nuova gestione effettuò 7.000 esuberi contro i 2.100 che avrebbe effettuato Air France-KLM. Il progetto finisce nel 2013 quando Alitalia è di nuovo prossima al fallimento, il Cda rassegna le dimissioni e viene venduto il 49% della società ad Etihad.
Le turbolenze per la compagnia di bandiera non finiscono qui, con il totale esaurimento della cassa aziendale ed il ritiro di Etihad, viene posta in amministrazione straordinaria il 2 maggio 2017 beneficiando di un prestito ponte di denaro statale di 900 milioni di euro.
Nonostante i commissari fossero riusciti inizialmente a limitare le perdite, hanno chiuso il 2019 con una perdita operativa stimata di circa 500 milioni. Tutto questo mentre le low cost hanno chiuso il 2019 con utili operativi in calo ma comunque sostanziosi, basti pensare ai 1.189 milioni di Ryanair.
Nuova nazionalizzazione e nuova concorrenza
Alitalia, moribonda già prima della crisi, non può ovviamente resistere all’impatto che il Covid-19 sta avendo sul settore aereo, per questo il governo coglie l’occasione per l’ennesimo aiuto di stato e la nazionalizzazione. Alitalia infatti, secondo quanto stabilisce il decreto rilancio, ritornerà sotto il controllo statale al 100% come ai tempi dell’IRI.
Il processo si dovrebbe delineare con la creazione di una nuova Alitalia (new company) controllata dal Ministero dell’Economia e delle Finanze che immetterà nel capitale dell’impresa 3 miliardi di euro da sottoscrivere nel 2020 e versare in più fasi. I debiti rimarranno a quella che sarà la vecchia Alitalia (bad company) che cercherà di estinguerli con i ricavi della vendita dei beni che probabilmente verranno acquistati dalla new company.
È chiaro che in una situazione come questa, dove il settore aereo sta vivendo probabilmente la più grande crisi della sua storia, il governo sia legittimato ad intervenire per dare ossigeno alla compagnia di bandiera: anche i governi di Germania e Francia si sono mossi per aiutare rispettivamente Lufthansa e Air France-KLM con circa 7 miliardi di euro ciascuno.
È senz’altro vero anche che Lufthansa e Air France-KLM hanno un numero notevolmente maggiore di dipendenti e prima della crisi erano profittevoli, mentre Alitalia registra perdite da ormai 30 anni.
Al governo spetta la sfida considerevole di trasformare una volta per tutte i soldi pubblici spesi per Alitalia in qualcosa di concreto. Le premesse però non sono delle migliori visto le recenti dichiarazioni della ministra dei trasporti Paola De Micheli. Secondo la ministra la nuova Alitalia non deve diventare low cost ma rimanere una compagnia tradizionale e seguire le orme della TAP (compagnia di bandiera portoghese), che sfortunatamente però, realizza uno dei margini più bassi del settore e nel 2018 ha subito una perdita di 118 milioni di euro.
Magari il governo, per il successo della nuova Alitalia, conta sul fatto che la
concorrenza dei vettori low cost in Italia verrà limitata. Infatti, con il decreto rilancio viene anche preparato un piano per alzare le retribuzioni minime e rivedere l’assegnazione degli incentivi aeroportuali che fino ad ora venivano concessi quasi sempre alle low cost per convenienza. Se questo provvedimento può avere qualche effetto positivo sotto il profilo occupazionale, bisogna vedere quali effetti avrà per i viaggiatori. Si prevedono aumenti del costo dei biglietti aerei ed un impatto negativo sui flussi turistici, un prezzo alto da pagare per gli italiani, che di fatto hanno già speso 12,7 miliardi per i (numerosi)
salvataggi della compagnia di bandiera.
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