Autore: #DanieleTrizio
Il 24 Dicembre 2020 è stato siglato l'Accordo su Commercio e Cooperazione tra Unione Europea e Regno Unito. Si tratta di un’intesa unica nel suo genere, come d’altronde è stato senza precedenti il contesto in cui è stata raggiunta. Il TCA (abbreviazione per Trade and Cooperation Agreement) si affianca ai trattati commerciali già siglati con Canada (CETA) e Giappone (EPA).
Data l’urgenza di attivare immediatamente le norme concordate, la Commissione Europea ha proposto di applicare in via provvisoria i contenuti dell’accordo prima ancora di ricevere il consenso del Parlamento Europeo, non sussistendo i tempi necessari per la sua approvazione (che comunque avverrà i primi di gennaio). Il Consiglio Europeo deciderà se accogliere la proposta della Commissione il 31 dicembre, con gli ambasciatori europei dei paesi membri che comunque hanno già anticipato il loro consenso. La Camera dei Comuni inglese invece si esprimerà domani 30 dicembre. Non dovrebbero esserci sorprese sulla capacità dei Conservatori di far passare il testo in Parlamento con il voto favorevole, seppur riluttante, anche dei Laburisti. Chi si esprimerà in maniera irremovibilmente contraria sarà invece il partito scozzese. La Scozia, infatti, ha da sempre dimostrato posizioni marcatamente filoeuropee e questo accordo viene considerato una sorta di tradimento dei Conservatori per come sono state condotte le trattative, con le richieste scozzesi sistematicamente ignorate.
Il testo dell’accordo andrà a normare le relazioni commerciali tra Unione Europea e Regno Unito dopo che quest’ultimo abbandonerà il 1° gennaio 2021 il Mercato Unico Europeo, l’Unione Doganale e l’Euratom. Parliamo di un documento che gli analisti definiscono “dinamico”, prevedendolo soggetto a numerose modifiche nel corso del tempo. Quello ottenuto dai due capi negoziatori, Michel Barnier per conto dell’Europa e David Frost per conto del Regno Unito, è comunque un risultato storico. Le trattative sono infatti iniziate solo dopo che l’UK ha ufficialmente lasciato l’Unione Europea il 31 gennaio 2020 con la ratifica del Withdrawal Agreement (di cui forse avete già sentito parlare, altrimenti trovate l’articolo a riguardo qui).
Con i negoziati avviati soltanto il 31 marzo, in meno di nove mesi sono state raggiunte le intese che andranno a gestire il più interconnesso canale commerciale al mondo, per un valore stimato pari a circa €738 miliardi (dati del 2019). Si tratta dell’accordo bilaterale più ambizioso mai raggiunto prima e soprattutto nel minor tempo (basti pensare che il CETA ha richiesto ben 5 anni di negoziati per essere finalizzato).
Un’altra particolarità del trattato è che per la prima volta si è lavorato duramente per definire un trattato commerciale che andasse a regredire le precedenti relazioni anziché stimolarle, a differenza di quanto avviene solitamente quando l’obbiettivo è assicurare una maggiore interdipendenza economica. In questo caso invece il leitmotiv di tutto il capitolo Brexit è stata la volontà del Regno Unito di reimpossessarsi di quella sovranità considerata perduta da tempo.
Maggiore sovranità si accompagna però a maggiori responsabilità e non sempre si traduce automaticamente in maggior benessere.
Approfondiamo nel dettaglio quali sono stati i risultati di questi mesi di trattative. Sarà lunga, ma se sarete armati di pazienza avrete modo di farvi un’idea di come si trasformerà il Regno Unito senza l'Unione Europea.
Se siete lettori assidui di Passaporto Futuro dovreste già sapere quali sono stati i tre grandi ostacoli che hanno minacciato la buona riuscita dei negoziati: l’accesso ai mari inglesi da parte dei pescatori europei, la definizione di regole comuni affinché venga garantita la corretta competizione ed infine la gestione delle controversie che possono insorgere tra le parti.
Ovviamente i contenuti non si limitano a questi tre elementi ma facendo un passo alla volta affronteremo tutte le principali questioni.
Partiamo con la pesca. Bisogna mettere in chiaro che il settore ittico incide per circa lo 0.02% sull’economia inglese rendendolo di fatto quasi irrilevante da un punto di vista economico. Nonostante ciò, i promotori della Brexit hanno fatto particolarmente leva su questo tema descrivendolo come l’occasione per riprendersi il controllo sulle proprie acque. Fino ad ora il pescato totale è stato spartito con le seguenti proporzioni: alle reti inglesi spettava quasi la metà di tutto il pescato annuale, ai restanti 27 paesi membri spettava un terzo del pescato mentre le rimanenti quote erano assegnate a Norvegia e Isole Faroer.
Da quanto emerge dal testo finale del documento, a partire dal 2021 e per un periodo di transizione di 5 anni e mezzo, le quote europee saranno diminuite gradualmente del 25% e trasferite al Regno Unito. Trascorso questo arco di tempo si condurranno negoziati annuali per fissare le nuove rispettive quote. Il vero nodo della discordia era rappresentato dalla volontà inglese di godere del diritto di estromettere del tutto le navi europee al termine del periodo di transizione. È stato deciso che il Regno Unito potrà godere di tale diritto, così come però l’Unione Europea potrà fissare arbitrariamente tariffe sulle esportazioni di pesce inglesi, che rappresentano la maggioranza di tutto il pescato del Regno Unito. L’intesa sembra quindi basarsi su di un reciproco senso di deterrenza più che su di una reale volontà di collaborazione.
La seconda spina nel fianco per il nostro negoziatore Michel Barnier è costituita dall’inevitabile necessità di definire a priori quale dovrà essere l’autorità competente a esprimersi sulle future eventuali controversie. Forse ancor più che sulla pesca, il governo inglese si è dimostrato irremovibile nel pretendere che il suo operato non sarebbe stato sottoposto alla giurisdizione della Corte Europea di Giustizia. Per raggiungere un compromesso, le parti hanno patteggiato un do ut des che ha visto il coinvolgimento del terzo elemento cardine della trattativa: il level playing field. Affinché l’Europa accogliesse la richiesta del Regno Unito, quest’ultimo ha dovuto sottoscrivere una serie di “principi” che rispettassero gli standard europei in relazione a numerose tematiche, dagli aiuti di stato alle politiche ambientali. Il risultato di questo patteggiamento è l’assenza di un organo predisposto alla risoluzione giuridica delle controversie. Al suo posto queste saranno oggetto di arbitrato (senza quindi il ricorso ad un procedimento giudiziario ma con il coinvolgimento di un soggetto terzo che indirizzerà le parti verso una decisione condivisa).
E là çà devient intéressant, come direbbe Michel Barnier. Perché due dei cambiamenti che vivremo insieme ai giovani inglesi più da vicino non riguarderanno il numero di aringhe che avremo il diritto di pescare o le grane giudiziarie in cui incorreremo con il governo inglese (spero). Interesseranno invece in primis la possibilità di trascorrere lunghi periodi di studio, stage o lavoro all’estero: per soggiornare per più di 90 giorni (nell’arco di sei mesi) sarà necessario richiedere una VISA e un visto.
Inoltre, il cambiamento ancora più rilevante sarà l’interruzione del programma Erasmus+ per quasi tutti gli studenti del Regno Unito. Quasi tutti perché l’Irlanda, che è e rimarrà un paese membro dell’Unione Europea e di tutte le sue istituzioni, finanzierà il programma di studio all’estero ai giovani nord-irlandesi assicurando così quell'essenziale continuità all’interno dell’isola non solo territoriale, ottenuta attraverso l'assenza di un confine fisico, ma anche culturale. Se le destinazioni europee non saranno quindi più accessibili agli studenti d’oltremanica, viceversa quelle inglesi non lo potranno più essere per noi europei.
In merito a ciò, fa riflettere vedere il video del Primo Ministro inglese Johnson in cui assicura che gli studenti inglesi non avrebbero sofferto alcun taglio al progetto Erasmus a causa della Brexit.
A proposito di Irlanda del Nord: come abbiamo detto non ci saranno dazi o limitazioni alle merci esportate in Europa ma dovranno comunque essere effettuati i necessari controlli alla dogana prima che i beni esportati (o importati) superino il confine. Quello del confine tra Irlanda e Irlanda del Nord è stato sin da subito un nodo cruciale durante i negoziati a causa dell’impossibilità di assicurare un confine “invisibile” se questo avesse rappresentato non solo il confine tra Regno Unito e Irlanda ma anche la frontiera dell’Area Economica Europea all’interno della quale il Mercato Unico e l’Unione Doganale operano. Di conseguenza, è stato deciso che l’Irlanda del Nord sarebbe rimasta al loro interno assicurando così un passaggio delle merci senza frizioni e senza controlli. Da questo particolare si può comprendere meglio l’ostilità della Scozia nei confronti del governo centrale dopo essere invece stata obbligata a seguire il resto del paese nell’abbandono incondizionato di tutte le istituzioni europee.
Per la precisione, il tema del confine nord-irlandese non è stato risolto con il recente annuncio del Brexit Deal: molte delle problematiche relative al confine erano già state affrontate nell’ambito del Withdrawal Agreement del 31 gennaio 2020. Affrontate ma non esattamente risolte, con il governo inglese che ha tentato di bypassare gli accordi raggiunti e ratificati per poi tornare sui suoi passi conscio che altrimenti la credibilità internazionale del paese ne sarebbe risultata compromessa. Solo l’8 dicembre sono stati raggiunte in via definitiva tutte le intese “di principio” sui nodi rimasti da sciogliere riguardo alla questione del confine nord-irlandese.
Ma come funzionerà in pratica l’export delle merci dal Regno Unito attraverso il confine dell’Irlanda senza che questo sia visibile? Spostandolo, letteralmente. Il controllo sulle merci non avverrà infatti al valico della frontiera nord-irlandese bensì verrà effettuato prima che le merci lascino le restanti regioni del Regno Unito per dirigersi via mare verso Belfast. Questo principio è definito Backstop. Le merci prodotte in Galles, Scozia o Inghilterra subiranno quindi i necessari controlli prima di imbarcarsi così da assicurare il rispetto di tutti quegli standard di qualità e sicurezza che il Mercato Unico e l’Unione Doganale esigono. Le merci prodotte invece in Irlanda del Nord potranno continuare a godere dello stesso trattamento avuto fino ad ora, quindi essenzialmente senza essere sottoposte ad alcun trattamento.
Due parole sui servizi e poi ci avviamo alla conclusione. Nel testo definitivo dell’accordo non è presente alcuna disposizione sostanziale sul futuro accesso da parte del settore dei servizi finanziari inglesi al mercato europeo. Questo settore rappresenta da solo il comparto più importante del settore dei servizi britannico che a sua volta vale l’80% della sua economia. Facendo un confronto con la pesca è interessante sottolineare ancora una volta come quest’ultima rappresenti meno dell’1% dell’attività economica inglese per un valore pari a €481 milioni (dati del 2019) mentre il settore dei servizi finanziari vale circa €138 miliardi.
Infine, i lavoratori inglesi ed europei perderanno il loro mutuo riconoscimento professionale e la loro qualifica non potrà essere più considerata valida in maniera automatica.
Mentre sempre più cittadini inglesi stanno richiedendo un passaporto irlandese, mentre si fanno più insistenti le richieste della leader scozzese Nicola Sturgeon per un nuovo referendum indipendentista e mentre l’Irlanda del Nord si accinge a divergere marcatamente dal resto del paese la Brexit potrebbe non solo sancire il divorzio tra UE ed UK ma anche rappresentare una minaccia all’unità stessa del Regno Unito, destinato a navigare ancora per molti anni in acque turbolente.
Acque, almeno queste, di cui potranno essere sovrani al 100%.
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